Testi critici
Testi critici
Dallo spazio quasi rappreso degli interni con figure (giocatori, uomini al bar, suonatori) protagonisti dei primi quadri dell’artista con accenti più marcatamente espressionistici e toni scuri …il colore dei nuovi lavori sembra liberarsi, aprendosi con pennellate larghe e ariose ad illimitate possibilità espressive. I paesaggi aperti, le marine, la campagna lungo il fiume, ma anche gli scorci urbani – armoniche fusioni di frammenti di città viste, pensate o anche solo sognate – consentono la libera espansione del colore, favoriscono una dimensione emotiva ed individuale. Per Paolini dipingere è prima di tutto un fatto istintivo, immediato, collegato alla sfera emozionale, ma anche alla prassi del fare artistico. La pittura è per lui “fare”, combinare insieme colori che si espandono liberamente sulla tela, inseguendo frammenti di immagini mentali, sensazioni che affiorano dalla memoria. Dagli accordi cromatici, dalle diverse possibilità di rapporti tonali dipendono il succedersi e il dissolversi delle immagini e viceversa, in un fluire continuo che determina l’esito finale del lavoro.
(Nicoletta Cardano-Galleria Pascucci, Grosseto 1987)
I ‘paesaggi’, i ‘Filari’, questi boschi che si specchiano in acque ancora libere o si stagliano in orizzonti aperti in ore e stagioni, di Primavera o di Autunno, segnano i confini di una realtà che non è soltanto memoria, o elegia malinconica di una realtà ormai remota e forse perduta; o “isola” ancora incorrotta dall’inquinamento e dal degrado, ma certezza di poter ancora vivere a contatto con la Natura, in un’armonia fra uomo e natura, sempre possibile e misura di quotidiana esistenza.
(Elio Mercuri -Passeggiate in Etruria – L’Occhio parlante, Roma 1987)
C’era una volta un bosco fatato. In magiche notti del plenilunio di primavera tornavano a ballare in esso alcuni dei etruschi, ebbri di ricordi e di piacere. La danza compatta e invisibile coinvolgeva allora alberi, arbusti e animali dell’oscurità. Il giorno dopo, spossato, sfibrato, il bosco si offriva ancora più cupo e dolente per l’inverno che lo lasciava al carezzevole parlare del vento. Seguendo quei sussurri il pittore arrivò a lui.
(Alessandro Amendola -Passeggiate in Etruria – L’Occhio parlante, Roma 1987)
Il legame sottile che collega gli elementi dell’immagine è dovuto al ricordo e alla rielaborazione delle emozioni e delle percezioni vissute, e ancora alla pennellata che tutto ciò registra. I quadri di Paolini diventano così visioni, che lasciano intravedere tutto ciò che eccede dalla semplice esperienza percettiva e che rimandano ad una realtà interiore che urge e si affaccia nella rappresentazione. […]. Compare infine la figura: nel quadro centrale della mostra sono ritratti nello studio del pittore Günther Rechn gli amici italiani e tedeschi con cui l’esperienza del viaggio si è consumata. E’ questo della figura un ritorno alla primitiva produzione dell’artista […] La consapevolezza della fragilità e dell’inquietudine esistenziale, che si intuisce anche nei paesaggi, trova espressione in questa raffigurazione pacata e intensa, che restituisce l’armonia dell’incontro e la fiducia nei valori umani della comunicazione, e dove l’amore della vita sembra avvolgere non senza nostalgia personaggi e oggetti.”
(Nicoletta Cardano – In viaggio verso Cottbus – Galleria Il Tridente, Grosseto 1991)
Pare che egli sia riuscito a percepire e registrare gli echi affioranti della città, le sue voci sommesse, il suo incanto e la seduzione, persino i fantasmi che vanno in giro la notte: una Praga ricca di vibrazioni segrete, ch’egli ha dipinto discendendo dalla collina del Castello, percorrendo le sue strade e attraversando i suoi ponti….. Praga è andata assumendo subito il carattere di un’interiore rivelazione, quasi la scoperta, nella sua cerchia urbana, di una meraviglia da interpretare nelle sue qualità d’immagine. …Paolini è riuscito ad ascoltare il respiro della città, se ne è lasciato penetrare, indovinando i momenti magicamente più intensi.”
(Mario De Micheli – Praga ritratto di una città – Palazzo Patrizia, Siena 1995)
E’ evidente come la necessità di elaborare il paesaggio cittadino venga in lui da lontano, da urgenze e fili interiori che comunque precedono di gran lunga l’impatto emotivo ed intellettuale con Praga. E’ proprio questa la ragione della profondità del rapporto tra il pittore e la città: non è questa che vive e costringe quello, è invece l’artista che sa interrogarla, che sa grattar via la superficie convenzionale e in qualche modo scoprirla. La capacità di indagare produce capacità di capire, di vedere la complessità e la multiformità degli strati che compongono la città; di vedere per esempio quella periferia che tanta parte ha avuto nella pittura e nella letteratura ceca del Novecento, di vedere comunque una Praga in cui si vive sì un sogno dell’intelletto, ma un sogno che più spesso assume il carattere della bella quotidianità, della vita che si dipana anche tra le pieghe dei fatti di ogni giorno.”
(Giancarlo Fazzi – Praga ritratto di una città – Palazzo Patrizia, Siena 1995)
Paolini rimastica pazientemente le proprie radici etnoculturali, le digerisce e ne rende conto a petto delle esperienze moderne più decisive. Ecco perciò che quanto di vedutistico ancora conservavano le due mostre citate (Praga e Cottbus), è diventato struttura ossea in questa robusta serie di paesaggi maremmani, piuttosto interessati alla lezione di Cézanne che non alle suggestioni del bell’Ottocento fattoriano. Perfino la luce non arriva a investirli da una qualche fonte esterna, ma sembra in qualche modo generata dalle viscere di queste dense masse terrose, di queste case disposte come blocchi senza affabilità, di queste dune, rocciose, colline accatastate come dopo un diluvio solare.”
La forza di questi olii sta tutta nell’assunzione del colore come struttura, senza nessun calcolo edulcorativo, nessuna accondiscendenza o diplomazia cromatica. Non offrono suggestioni evasive. Non vendono sogni. Scolpiscono natura e luoghi di storia umana, individuano una vegetazione scarsa, fanno insomma la radiografia ardente – talvolta incandescente, in certi casi – di un paesaggio che si impone più per la propria asprezza che per la propria grazia. L’unico appiglio, allora, l’unica carta che Paolini ha da giocare è la pittura. E lo fa con sicurezza, battendo sulla dialettica impietosa di luce accecante e di ombra densa, con un occhio che non accarezza ma ordina, scinde, rompe gli spazi e le dimensioni. Da pittore insomma di bella, forte nervatura, le cui eventuali tenerezze, a voler proprio vedere, se ne volano in cielo dentro le sue nubi, quando sono più rosee e evanescenti.”
(Mario Lunetta – Paesaggi toscani – Galleria La Vetrata, Roma 1998)
Quando Paolini dipinge le città, come per esempio ha fatto e fa magistralmente con Roma, è come se applicasse al suo soggetto la misura del ritratto, vale a dire introducesse nell’economia delle sue immagini lo sguardo contemplativo e indagatore del ritrattista mentre studia un volto, una postura, un’espressione per catturarne, o interpretarne, l’intima essenza. E’, questa sua, una misura beninteso interiore, che non riguarda questioni di tecnica quanto, piuttosto, rimanda a una vera e propria filosofia della pittura, a una fondante poetica del rappresentare, capace dunque di contestare ogni tradizionale punto di vista di “genere”, trasformando un panorama urbano – muri, finestre, tetti, campanili, – in uno straniante fondale di teatro, in un palcoscenico di silenzi felpati, messo in scena come un immobile personaggio che si tenga in posa dinnanzi all’artista per farsi ritrarre.
Oggi, dopo un suo viaggio nell’arcipelago maltese, questa sua vocazione al “ritratto di esterni”, tra Malta e Gozo, tra La Valletta, Rabat e Mdina, ha prodotto un’altra serie, intensa e bellissima, di tele nelle quali una pittura lucida e sobria, composta e silenziosa, straordinariamente compiuta e soda nella sua tranquilla perentorietà, si muove sul terreno dell’intensificazione lirica delle cose verso un avvertito sentimento di poesia fatto tutto di suggestioni interiori, di metafore tanto leggère quanto straniate e incantevoli.
In queste stradine d’ombra e di luce, in questi campi d’ocra, in queste fonde sciabolate di mare e muri, le isole maltesi di Paolini sembrano qui partecipare alla vertigine tranquilla ma interrogante di una inventività dilatata e delicata, resa ancora più intrigante dal fatto che i riferimenti alla realtà oggettiva, alla realtà ottica, retinica,. sono ineccepibili e precisi, pur illanguiditi come sono, quasi per un illusorio spiazzante gioco di specchi interiori, da una luce tutta mentale, da una liquida aria di simbolo. Un gioco, dico, illusorio nel senso della metafora, dell’artificio della poesia.
Paolini, difatti, non è un illusionista. Non gli interessa (e si sente) creare giochi di prestigio pittorici per giungere a piacerci, od a compiacerci. La sua è poesia di sentimenti, non è retorica sentimentale. E la trascendenza di questi suoi ritratti di luogo, del loro significato, porta appunto ad un sottile disagio, ad una vibrazione d’inquietudine che è sempre e soltanto pervasa da una tensione squisitamente lirica, affabulatoria. Il suo fantastico, il suo “illusionismo”, consiste semmai nel ri-costruire un ordine conoscibile all’interno dell’indistinto senso del vedere che ci circonda, nel ritrovare il senso ed il baricentro di una intima dimensione lirica di fronte all’impassibile e inconoscibile vastità delle cose. E nell’edificare – con questo – poesie figurali sul nostro destino innervato dai miti: poesie in forma d’immagine, tanto tranquille quanto misteriosamente, e suggestivamente, allarmate.
(Giorgio Seveso – Ritratto di esterni in un viaggio (Ricordi di un’isola)- Galleria Il Tridente, Grosseto 2001)
La città vista come spazio colmo di una eredità che ci va soverchiando: pensarla nella luce piena vorrebbe dire coglierla solo in superficie. Paolini l’avvolge generalmente entro ombre che ci svelano assai più segreti. Dalle tele non traspare il caos che la chiude nel suo ritmo frenetico, pare che ogni evento si sia placato, ogni elemento storico sopito, ogni quartiere spento. E’ un territorio saturo di muri e di tensioni. La città pare voglia raccontare la sua cultura e anche i suoi disagi. Più che una “foresta” ora mi pare un’avventura pittorica e lirica, con le sorprese che palpitano sotto i simboli e che invitano a meditare. I romani che la abitano sanno bene che i barbari possono scendere di nuovo. Più che di teatrini ora siamo al dramma di una luce che non conosce i chiarori di un tempo, ma l’asprezza amara di una Storia che sta posandosi sul cuore della città. I cittadini si domandano se camminano sulle strade di Cesare o di Nerone: la Storia si fa strada nella coscienza degli artisti, anche inconsciamente. Ma Paolini guarda la città col gli occhi del suo stile, con la sua maniera particolare di ragionare e di descrivere, unendo la città nella sua entità di materia e di idealità, di volumi e di pensieri.
Emerge la continuità di una ricerca artistica che accompagna fedelmente un modo di pensare e di descrivere il mondo. Si tratta, in fondo, della coerenza stilistica di un artista che sa guardarsi dentro e rimanere fedele al suo modo di essere e al suo modo di esistere, sia dipingendo un prato o una città.
(Dino Carlesi – Complicità romane – Galleria La Vetrata, Roma 2004)
Germano Paolini: il verosimile come apparizione e scomparsa
Bisogna vivere a Napoli e amare a Milano.
STENDHAL
Nella realtà esiste soltanto il vero nella sua tangibile corporeità; il verosimile si dà esclusivamente nella finzione. E’ questo, appunto, che ha consentito di assumere nella modernità il verosimile come categoria filosofica all’interno della riflessione estetica, scartando seccamente l’ipotesi (protoidealistica e platonizzante) dell’imago come copia del modello di natura: e si faccia riferimento per tutti a un pensatore materialista e dialettico come Galvano Della Volpe, che l’ha considerato anche in rapporto al dinamismo dell’immagine cinematografica. In lui (Critica del gusto, 1960; e poco prima, Il verosimile filmico e altri scritti di estetica, 1954) la specifica autonomia del fatto artistico non può andare disgiunta da un dato forte di razionalità-storicità, e la verosimiglianza, “diretta o indiretta, per analogia o per contrasto che sia”, (…) “non è poi che la verità di idee controllate per via semantico-organica con quel corpo di leggi e probabilità – o rationale – ch’è il reale dell’esperienza e storia (criterio del verisimile)”: per cui, non esiste in arte un verosimile puramente mimetico, ma un’opera si pone come verosimile in forza delle tensioni complesse della sua organicità semantica che ne legittimano la “verità” (cioè, l’autenticità) e la certificano come verosimile al dilà degli scarti e degli arbitri formali che possono caratterizzarla. Alla fine, insomma, il verosimile di un’opera d’arte è la sua stessa capacità di convinzione, l’energia interna della sua organizzazione formale che la definisce come equivalente (allusivo e metaforicamente critico) della realtà.
Germano Paolini è un pittore, appunto, che non smette di credere alla misurabilità relativa del mondo attraverso l’immagine realizzata sul filo del verosimile. Si direbbe che nella sua lingua la riconoscibilità del modello sia un elemento ulteriore di invenzione, la spinta al dispiegarsi del suo rapporto – immediato e insieme problematico – con il testo. L’artista subisce il fascino di manufatti la cui lenta deperibilità sembra una scommessa con l’eterno: la campagna maremmana che alimenta da sempre la sua vita e la sua immaginazione, il paesaggio toscano che ha in sé la saldezza metafisica di un’architettura o di una calcolatissima scenografia, infine l’espansione verso alcune presenze urbane che paiono vivere senza tempo nel tempo, e prendono perentoriamente nella pittura paoliniana ruolo di interlocutori attivi, di carrefours della memoria e dell’immaginario, infine di enigmi che danno risposte sempre parziali, ambigue, sguince, e si arrendono soltanto alla forza emblematica dell’immagine. La tela, tuttavia, non è in Paolini il luogo della pacificazione, ma un altro spazio di conflittualità. E’ appunto in questa dialettica che le immagini dell’artista esibiscono impazientemente una loro “tridimensionalità” materica e un tasso “espressionista” non placato. C’è in effetti sempre qualcosa di furente, in questa pittura, qualcosa che parla di un dialogo drammatico tra il pittore e l’oggetto, che prende così una seconda natura, un’altra vitalità magari risolta in una sorta di spettralità magica. Un rapporto in qualche misura rissoso, diremo allora, fondato su un’ammirazione che non vuole comunque cedere a una totale subalternità da “sindrome di Stendhal”, ma conservare piuttosto una sua valenza critica di visione aperta. E’ questa la ragione prima per cui in questa pittura dei luoghi non c’è traccia di vedutismo, ma esplorazione e interpretazione. Le visioni urbane e gli appunti di viaggio di Paolini hanno così una frenesia e un’accensione che non potevano avere i suoi lontani predecessori, gli artisti europei del settecentesco Grand Tour, ai quali bastava assumere un atteggiamento rispettosamente riproduttivo e mitografico per avere assolto a un dovere insieme sentimentale ed etico nei confronti delle meraviglie d’Italia. Egli non coltiva feticci predisposti, e per ciò stesso depotenziati di senso: ma si muove in una sua personale scoperta di situazioni malgrado tutto resistenti al degrado dell’oggi (le città di Cottbus, Praga, Roma, Verona, Napoli) per aprire un’interlocuzione attiva, da moderno che impiega tutto il suo sapere, le sue frustrazioni e la sua ansia di giudizio sull’orizzonte di un’utopia declinata, nello sforzo di realizzare sulla tela i fantasmi, o gli ectoplasmi di una seduta spiritica acremente materialistica.
Paolini accorcia la distanza di rispetto dal modello, cerca il coinvolgimento ai limiti del contagio, eppure sempre mantenendo nell’immagine una struttura ossea molto salda: fermezza, questa, che gli proviene dalla mai dimenticata lezione di Cézanne e dal rivissuto lascito dei macchiaioli più strutturali (Fattori, Abbati, Signorini). Ecco allora che le città di questo pittore dal talento inquieto non possono che essere entità dinamiche, come ancora in una fase di autocombustione entro cui si definisce il loro profilo per molti versi inafferrabile. Se il paesaggio è lavorato in Paolini a blocchi di materia e a lembi cromatici che puntano per contrasti interni a una forma di regolarità quasi architettonica (si vedano in particolare opere come Paesaggio con vecchio ponte, 1998; Campi gialli, 1998; Il ponte, 2002; Colline in Val d’Arbia, 2003; Colline e casa rossa, 2007), le immagini urbane trovano la loro più forte intensità nel rapporto magnetico tra velocità dell’impressione e sottrazione impietosa dello stupore degustativo. I flashes paoliniani sono lampi di luce avvolgente che calamitano improvvise cadute d’ombra: ed è proprio in questo squilibrato equilibrio che si afferma in tutta la sua perizia e energia il polso espressivo dell’artista. Nelle sue immagini le città emettono le loro inconfondibili voci, tanto più quanto più cancellano le loro tracce più celebrate. Se la sequenza dedicata a Praga e a Cottbus tiene anche conto di certa grafica oscura e severa della loro tradizione, nelle “complicità romane” del 2004 c’è la sensualità carnale della Città Eterna e (come osserva Dino Carlesi) la memoria di Scipione e Mafai passata al crivello dello sguardo condensato dell’artista, della sua capacità di respiro in sintonia con ciò che vede, infine della sua concentrazione intelligente. I monumenti hanno diritto ad esistere sulla tela solo in quanto abbaglianti dettagli o apparizioni che emergono dal buio. Sono davvero, queste città di Paolini, città degli uomini, fatte per essere abitate, vissute, calpestate. In una parola, per essere amate nella concretezza dell’esistere, perché sono materia viva, non simulacri buoni per l’eloquenza delle cerimonie ufficiali.
E ora, Napoli: come dire, un’altra icona inconsumabile dell’antropologia e della cultura occidentale. La sequenza napoletana di Paolini è al tempo stesso un omaggio alla città partenopea e una sfida al proprio occhio. Chiunque rischia di perdersi otticamente, nel magma della città fatto di stratificazioni, scorci, quinte che fulmineamente spariscono, saliscendi capricciosi, ville, incastri corallini che fanno sorpresa e teatro. Inoltre, Paolini ha anche dovuto fare i conti con tanto illustre vedutismo napoletano non facile da liquidare. Bene. Questa sfida plurale il pittore l’ha vinta in virtù della propria coerenza stilistica, che all’omaggio nulla ha sacrificato in termini di rigore formale, pur mantenendo a petto dei soggetti un afflato empatetico fortissimo. Talora questi “fotogrammi” sono colti dal basso, o in prospettiva obliqua (S. Maria in Portico; Via Ascensione; Hotel Continental ; Stratificazione), e – investiti da una grande luce diurna che ne esalta i cromatismi e insieme pare alimentarne la vitalità, o immersi in un lucore aurorale o crepuscolare (Alba; Azzurro1; Azzurro 2) come pure in un crepitante silenzio di notte (Notturno da Posillipo) – non funzionano come simulacri catafratti, ma è avvertibile in loro il calore della presenza umana, pure visivamente assente. E’ una sorta di metempsicosi. Questi pezzi di città agiscono come personaggi di una grande, inarrestabile rappresentazione carica di gioia e di tragedia. Il fulgore neoclassico di Villa Pignatelli o il delirio acquatico di Palazzo Donn’Anna ne sono le splendide, malinconiche finzioni. Paolini, etrusco “napoletano”, ne è stato lo straordinario regista.
(Mario Lunetta, Incroci della memoria e dell’immaginario – Castel dell’Ovo Napoli 2007)
Per Paolini la tela, prima ancora di essere un supporto per la rappresentazione, è innazitutto uno spazio privilegiato di incontri, un luogo interiore in cui egli si confronta con il soggetto da rappresentare in un reciproco e libero scambio dialettico che si svolge costantemente come oscillazione fra la realtà e la sua rappresentazione, fra oggettività e poetica trasfigurazione. Non sarebbe quindi assurdo affermare che leggendo con lo sguardo i ritratti di Praga, ci si possa imbattere, si possa avere la sensazione di trovarci di fronte a degli autoritratti dell’artista stesso in cui, dalla forza espressiva e sofferta dell’impeto pittorico e del colore energico e pastoso, emerge tutta l’esperienza di un incontro struggente e passionale.
In ogni veduta l’artista non cede alle facili lusinghe di conferire preminenze gerarchiche alle architetture monumentali rispetto a quelle popolari o industriali. Tradizione e modernità convivono in immagini in cui il traffico cittadino scorre frenetico fra gli edifici antichi e maestosi o le rotaie di un tram in corsa si perdono in un mare di luci. Nella Praga contemporanea di Paolini passato e presente non prevaricano l’uno sull’altro ma si fondono in luoghi in cui il tempo è sospeso nell’attimo fugace di un’idea, di un’ispirazione creatrice che rintraccia nella frattura storica, labile confine fra luce ed oscurità, emblematici echi kafkiani o mistici retaggi magico-alchemici come la vitalità attuale di una importante capitale europea. L’opera si fa dunque spazio culturale amplissimo, crogiuolo di storie e di connessioni che sollecitano ulteriormente l’azione trasfigurante del gesto il quale, pur rimanendo fedele al modello di riferimento da cui muove, si inoltra con fare indagatore fra le strade, i palazzi e i cieli della città, cercando di carpirne lo spirito nascosto, per rivelare un’improvvisa scoperta o produrre nuovi enigmi, interpretazioni e spunti di riflessione.
(Davide Sarchioni – Incontri con Praga – Istituto Italiano di Cultura, Praga 2013)
Esiste un passaggio sottile, io credo per lo più imprevedibile ed inatteso per chi si trova a sperimentarlo, che porta ad un mutamento repentino nel modo di osservare; repentino quanto difficilmente percepibile da un occhio esterno. Un mutamento non di intenti – perché in tal caso i risultati scaturiti sarebbero in realtà piuttosto evidenti e soggetti a quanto mai abusati confronti – ma piuttosto di intimi moti che, talvolta, lasciandone inalterata la qualità, trasformano in sentimenti le emozioni suscitate dall’immagine.
Su questo terreno si colloca l’esile differenza tra la curiosità della scoperta e l’intima conoscenza, tra il desiderio di cogliere l’unicità e la serena completezza della frequentazione, tra l’istintiva premura della condivisione e l’inconsapevole rivelazione di un legame.
E’ ciò che è accaduto a Paolini nel corso della sua costante frequentazione romana; incursioni – come lui stesso le ha in passato definite – che hanno sempre goduto di una innata ricchezza di motivazioni e fini. Roma ha suscitato in Paolini un’attrazione tanto istintiva quanto orientata alla riflessione, conservando un fascino che negli anni è stato declinato all’interno di quella incessante ricerca di una semplificazione formale e di un alfabeto che universalmente potesse raccontare i paesaggi, anche simbolici, della sua vita.
(Marta Paolini – L’ipnotico cromatico – Galleria della Tartaruga, Roma 2015)
Qualcuno ha scritto che l’arte non serve per indicare, ma per far sentire. Ad esempio, un quadro notturno non dovrebbe scrivere la notte, illustrarla, ma farci vivere l’emozione del buio e del silenzio.
E allora realizzo che adesso, per me, queste marine stanno diventando preziose ed eloquenti.
Perché non solo evocano un tempo lento e meditato, privo di drammi e di colpe, un tempo disposto a fermarsi. Ma soprattutto perché fanno sentire il senso di smarrimento e, allo stesso tempo, la voglia di abbandonare le rotte consuete, quelle che urlano all’evento sensazionale della tragedia, alla violenza dei corpi esibiti nello spettacolo della comunicazione pervasiva, al dolore reiterato e incompreso che si dissangua in rapida e anestetica assuefazione.
Queste marine fanno sentire la voglia di naufragare dalle nostre solitudini, come fossero derive di umanità, galleggiamenti di senso abbandonati a nuove correnti che, senza solennità e retorica, sublimano in un mondo pacificato l’intensità e l’essenza di una vocazione troppo spesso soffocata, quella di riconoscersi negli altri..