L'ipnotico cromatico
Galleria della Tartaruga – Roma 2015
Esiste un passaggio sottile, io credo per lo più imprevedibile ed inatteso per chi si trova a sperimentarlo, che porta ad un mutamento repentino nel modo di osservare; repentino quanto difficilmente percepibile da un occhio esterno. Un mutamento non di intenti – perché in tal caso i risultati scaturiti sarebbero in realtà piuttosto evidenti e soggetti a quanto mai abusati confronti – ma piuttosto di intimi moti che, talvolta, lasciandone inalterata la qualità, trasformano in sentimenti le emozioni suscitate dall’immagine.
Su questo terreno si colloca l’esile differenza tra la curiosità della scoperta e l’intima conoscenza, tra il desiderio di cogliere l’unicità e la serena completezza della frequentazione, tra l’istintiva premura della condivisione e l’inconsapevole rivelazione di un legame.
E’ ciò che è accaduto a Paolini nel corso della sua costante frequentazione romana; incursioni – come lui stesso le ha in passato definite – che hanno sempre goduto di una innata ricchezza di motivazioni e fini. Roma ha suscitato in Paolini un’attrazione tanto istintiva quanto orientata alla riflessione, conservando un fascino che negli anni è stato declinato all’interno di quella incessante ricerca di una semplificazione formale e di un alfabeto che universalmente potesse raccontare i paesaggi, anche simbolici, della sua vita.
Nella descrizione dell’elemento urbano l’interesse indugia sui volumi e sulla matericità della luce (Alba romana, Villa Medici), sul significato dei vuoti e dei pieni (Notturno all’Esquilino), sulle geometrie umane frutto di secolare stratificazione (Prenestina); ma anche, di rimando, sull’apertura repentina di un ritaglio di cielo dietro una facciata monumentale (Capriccio romano), o sul cadenzato allontanarsi e riavvicinarsi dell’occhio che, come su un’altalena, si dondola sulle cupole dorate (Dal Pincio, Luci del tramonto) per poi scendere fra le imprevedibili prospettive della città (Sotto Colle Oppio).
A tutto questo, negli ultimi lavori proposti, si affiancano alcune suggestioni letterarie che, entrando anche “fisicamente” nell’opera (brani di Valentino Zeichen nei light box Foro romano e Piazza Navona) reinterpretano il concetto stesso di stratificazione, ricordando come ogni accumulo e sovrapposizione non abbia solo un carattere materico e cromatico (S.Pietro tra le case, Palatino) ma anche e soprattutto culturale. Nella tagliente luce del crepuscolo (Attraversando il Tevere, Ultime luci ai Mercati di Traiano), appoggiata per un attimo la macchina fotografica – strumento che ha spesso accompagnato il processo creativo di Paolini – gli scorci, i tagli romani abbandonano il filtro dell’obiettivo che registra e narra per diventare compagni di passeggio, in una sintonia di caratteri che tratteggia una consumata relazione (Lungo via Labicana, Verso via Panisperna, Colosseo).
L’elemento umano, infine, nella sua presenza/assenza (Ombre e luci a campo dei Fiori, S. Maria del Popolo, Piazza di Spagna, Mercatino di San Cosimato), è strumento universale di osservazione, anche quando si condensa nel personale e “solitario” occhio dell’artista (Notturno all’Esquilino); esso diventa l’ulteriore componente che definisce la città e da questa ne risulta a sua volta definito.
E dopo il tramonto le facciate delle case colorate a calce tinta diventano tele di muro: rosa, sabbia, cilestrine. Per l’ipnotico cromatico la turista allunga la mano per afferrare la magia, sfiora la pittura fresca e s’impolvera le dita. (da V. Zeichen, Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, Roma 2000, p.69)
Grosseto, ottobre 2015 Marta Paolini

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