Dietro
alla pittura
di Germano
Paolini
c’è,
sì,
la Toscana
dei grandi
Macchiaioli,
un respiro
nobile
dell’ultimo
Ottocento
ma che
per Paolini
non si
tradusse
mai in
noiosi
manierismi:
perfino
gli orizzonti
della Maremma – di
oltre vent’anni
fa - o
i boschi
gli alberi
i cieli
i girasoli
non avevano
mai il
sapore
casalingo
dei piccoli
eventi
pittorici
dei post-macchiaioli
con le
nuvole
e i boschi
eseguiti
secondo
stilemi
ormai tradizionali
e con le
atmosfere
sempre
sull’orlo
di un sentimentalismo
grazioso.
Montagne
cieli e
alberi
nascevano
da visioni
memoriali
interne
in modo
che la
realtà quasi
sparisse
o non apparisse
come un
dato fondamentale
da riportare
minuzia
per minuzia:
Paolini
dette subito
alla sua
pittura
un respiro
diverso,
il senso
di una
cultura
espressiva
che travalicasse
i vari
elementi
per tradurli
in significati
lirici
personali
e nuovi.
E se nella
sua mente
nasceva
l’urgenza
di una
espressione
che interpretasse
la realtà in
modo inedito
vuol dire
che stavano
mutando
i processi
cognitivi
del pittore
e le sue
modalità di
ascolto
del mondo:
allora
le colline,
per esempio,
potevano
presentarsi
come piani
scuri e
sovrapposti,
espressioni
quasi inquietanti
di una
realtà più amara
e lontana
dai modelli
toscani
consueti.
Si trattava
di strutture
che erano mentali
e non fisicamente
speculari e
obbligavano
ad un rigore
formale che
faceva perdere
fisicità ad
una vegetazione
o a un gruppo
di case per
arricchirle
di umanità e
di storia.
Insomma la
predilezione
per la severità della
visione ha
creato intense
asperità cromatiche,
tagli di filari
e prati e cieli,
voluti intenzionalmente
non banalmente
amabili.
La sua preferenza
per i muri
delle città,
le strade,
i tetti, nasce
dalla predilezione
per il volume
della materia
vitale – di
cose nascoste
e persone invisibili – che
si ammassa
per attrazione
di cultura
e di storia,
essenze virtuali
che circolano
per le vie
e i cieli:
la sua Praga
respira attraverso
ponti e ciminiere,
la Moldava
si irrigidisce
nell’erba
alta delle
arcate e le
guglie forano
l’aria
che accarezza
i tetti rossi.
Tutte le immagini
di Praga hanno
in se stesse
la forza di
esistere rubando
le luci che
Paolini dona
per forza di
memoria. I
personaggi
di Kafka sono
dietro ad ogni
angolo prima
dell’ultimo
colpo. Perfino
gli acquarelli
perdono l’abituale
tenerezza per
accendere luci
dure sulle
facciate dei
palazzi della
Moldava. Ogni
viandante percorre
le vie camminando
sulla propria
ombra.
L’emozione
che l’artista
porta in gioco
per muovere
il pennello
verso le soluzioni
cromatiche è tale
da avere una
sua lunga durata
nel cuore della
gente: la tela
(significante)
punta con chiarezza
al sentimento
e alla razionalità del
lettore: la
sua percezione
visiva si colma
(e ci raggiunge)
di intenzionalità culturali
per cui il
risultato è trasfigurante
nel momento
in cui si fa
più realistico:
la suggestività lo
riempie di
un arbitrio
che sfiora
la trasgressione
visiva. In
questo senso
la luce segue
i moti interni
di una visione
che tende allo
scenografico
senza farsi
mai effimera,
anzi densa
di significazioni
da scoprire.
I suoi “ luoghi” hanno
il sapore delle
poesie – lunghe
o brevi – secondo
le vibrazioni
che le accendono
e il quotidiano
che le penetra:
si può diventarne
passanti di
quei luoghi,
offrire loro
una dimensione
umana e segreta.
Le sue città invitano
alla complicità,
ti adescano
in un sogno
ovattato di
strade case
tetti, eliminando
le distanze
tra centri
e periferie.
Ora
Paolini
ritorna
alla sua
Roma. Una
città piena
di fantasmi
e barbari
e miti
che percorrono
le vie
con la
baldanza
che deriva
dalla sua
storia.
Sappiamo
che nulla è eterno – e
quindi
evitiamo
le iperbole – ma
il fatto
che l’abbiano
amata i
poeti ci
dice molto
sul suo
fascino.
La fatica
dell’artista è quella
di restituircela
vera e
contemporaneamente
diversa
secondo
un gusto
visionario
che è un
modo di
lettura
tutto paoliniano:
uno spettacolo
trasferito
su un palco
invisibile
dove ogni
elemento
fa da quinta
all’altro,
con case
strade
tetti volutamente
avvolti
nel ricordo
di una “scuola
romana” (da
Mafai a
Scipione)
che la
distrusse
per amarla
maggiormente.
Gli artisti
del gruppo
non amavano
le celebrazioni
trionfalistiche
e la loro
pittura
colse l’aspetto
più mite
dell’espressionismo
europeo.
Paolini
sembra
risentirne
un certo
fascino
anche se – ancora
una volta – egli
se ne distanzia
come già fece
agli inizi
nei confronti
del post-impressionismo.
Il “San
Pietro” di
Paolini ha
lo sbigottimento
incantevole
di una scena
che ricorda
la cultura
di Enea Piccolomini
e la bontà di
Giovanni XXIII;
le “Rovine” mostrano
la cupezza
delle cose
piegate dal
tempo e dal
dolore; il “Foro
romano” risente
più della
voce di Cicerone
che di quella
di Orazio ironico
attorniato
sulla “via
sacra” da
poeti petulanti;
sulle facciate
delle chiese
le ombre inondano
i portoni,
mentre “S.
Maria della
pace” sfiora
appena col
bianco le colonne,
mentre “Trinità dei
monti” annega
in una stupenda
armonia serale;
il “Vittoriano” si
nutre di antiretorica
con i piani
accostati per
formare volumi
di pittura
e non memoria
di martirio;
il “Colosseo” finalmente
tratto fuori
dalla sua abituale
rotondità turistica
e amato come
frammento;
perfino la “Vecchia
fabbrica” si
armonizza teneramente
con la misura
della composizione,
mentre i “tetti” formano
libere masse
di colore per
coprire le
ansie e le
inquietudini
degli uomini
che vi respirano
sotto.
La città vista
come spazio
colmo di una
eredità che
ci va soverchiando:
pensarla nella
luce piena
vorrebbe dire
coglierla solo
in superficie.
Paolini l’avvolge
generalmente
entro ombre
che ci svelano
assai più segreti.
Dalle tele
non traspare
il caos che
la chiude nel
suo ritmo frenetico,
pare che ogni
evento si sia
placato, ogni
elemento storico
sopito, ogni
quartiere spento.
E’ un
territorio
saturo di muri
e di tensioni.
La città pare
voglia raccontare
la sua cultura
e anche i suoi
disagi. Più che
una “foresta” ora
mi pare un’avventura
pittorica e
lirica, con
le sorprese
che palpitano
sotto i simboli
e che invitano
a meditare.
I romani che
la abitano
sanno bene
che i barbari
possono scendere
di nuovo. Più che
di teatrini
ora siamo al
dramma di una
luce che non
conosce i chiarori
di un tempo,
ma l’asprezza
amara di una
Storia che
sta posandosi
sul cuore della
città.
I cittadini
si domandano
se camminano
sulle strade
di Cesare o
di Nerone:
la Storia si
fa strada nella
coscienza degli
artisti, anche
inconsciamente.
Ma Paolini
guarda la città col
gli occhi del
suo stile,
con la sua
maniera particolare
di ragionare
e di descrivere,
unendo la città nella
sua entità di
materia e di
idealità,
di volumi e
di pensieri.
Emerge la continuità di
una ricerca
artistica che
accompagna
fedelmente
un modo di
pensare e di
descrivere
il mondo. Si
tratta, in
fondo, della
coerenza stilistica
di un artista
che sa guardarsi
dentro e rimanere
fedele al suo
modo di essere
e al suo modo
di esistere,
sia dipingendo
un prato o
una città.
Ottobre
2004
Dino
Carlesi