Quando
Paolini
dipinge
le
città,
come
per
esempio
ha
fatto
e fa
magistralmente
con
Roma, è come
se
applicasse
al
suo
soggetto
la
misura
del
ritratto,
vale
a dire
introducesse
nell'economia
delle
sue
immagini
lo
sguardo
contemplativo
e indagatore
del
ritrattista
mentre
studia
un
volto,
una
postura,
un'espressione
per
catturarne,
o interpretarne,
l'intima
essenza.
E',
questa
sua,
una
misura
beninteso
interiore,che
non
riguarda
questioni
di
tecnica
quanto,
piuttosto,
rimanda
a una
vera
e propria
filosofia
della
pittura,
a una
fondante poetica del
rappresentare,
capace
dunque
di
contestare
ogni
tradizionale
punto
di
vista
di "genere",
trasformando
un
panorama
urbano
- muri,
finestre,
tetti,
campanili,
- in
uno
straniante
fondale
di
teatro,
in
un
palcoscenico
di
silenzi
felpati,
messo
in
scena
come
un
immobile
personaggio
che
si
tenga
in
posa
dinnanzi
all'artista
per
farsi
ritrarre.
Oggi, dopo
un suo viaggio
nell'arcipelago
maltese,questa
sua vocazione
al "ritratto
di esterni",
tra Malta e
Gozo, tra La
Valletta, Rabat
e Mdina, ha
prodotto un'altra
serie, intensa
e bellissima,
di tele nelle
quali una pittura
lucida e sobria,
composta e
silenziosa,
straordinariamente
compiuta e
soda nella
sua tranquilla
perentorietà,
si muove sul
terreno dell'intensificazione
lirica delle
cose verso
un avvertito
sentimento
di poesia fatto
tutto di suggestioni
interiori,
di metafore
tanto leggère
quanto straniate
e incantevoli.
In queste stradine
d'ombra e di
luce, in questi
campi d'ocra,
in queste fonde
sciabolate
di mare e muri,
le isole maltesi
di Paolini
sembrano qui
partecipare
alla vertigine
tranquilla
ma interrogante
di una inventività dilatata
e delicata,
resa ancora
più intrigante
dal fatto che
i riferimenti
alla realtà oggettiva,
alla realtà ottica,
retinica,.
sono ineccepibili
e precisi,
pur illanguiditi
come sono,
quasi per un
illusorio spiazzante
gioco di specchi
interiori,
da una luce
tutta mentale,da
una liquida
aria di simbolo.
Un gioco, dico,
illusorio nel
senso della
metafora, dell'artificio della
poesia.
Paolini, difatti,
non è un
illusionista.
Non gli interessa
(e si sente)
creare giochi
di prestigio
pittorici per
giungere a
piacerci, od
a compiacerci.
La sua è poesia
di sentimenti,
non è retorica
sentimentale.
E la trascendenza
di questi suoi
ritratti di
luogo, del
loro significato,
porta appunto
ad un sottile
disagio, ad
una vibrazione
d'inquietudine
che è sempre
e soltanto
pervasa da
una tensione
squisitamente
lirica, affabulatoria.
Il suo fantastico,
il suo "illusionismo",
consiste semmai
nel ri-costruire
un ordine conoscibile
all'interno
dell'indistinto
senso del vedere
che ci circonda,
nel ritrovare
il senso ed
il baricentro
di una intima
dimensione
lirica di fronte
all'impassibile
e inconoscibile
vastità delle
cose. E nell'edificare
- con questo
- poesie figurali
sul nostro
destino innervato
dai miti: poesie
in forma d'immagine,
tanto tranquille
quanto misteriosmente,
e suggestivamente,
allarmate.
Giorgio
Seveso